Individuare la terminologia corretta per i disabili e le tematiche connesse alla disabilita' non e' sempre facile, ma allo scopo si ritiene interessante riportare alcune considerazioni e modelli di comportamento suggeriti nell'ambito del: “Progetto per l’attuazione delle politiche generali sulla disabilita'”, formulato dall'INPS in applicazione delle legge n. 68/99.
In tale ambito ed alla chiusura dell'”Anno europeo delle persone con disabilita'”, sono state stabilite alcune norme di comunicazione, nell'elaborazione di documenti riguardanti i servizi erogati alle persone con disabilita' ed ai loro famigliari.
Ravvisando la necessita' di riportare alcune delle principali definizioni ricavate da studi internazionali e dalla legislazione italiana, si e' sottolineato come, nelle circolari rivolte a clienti interni oppure esterni, sia preferibile attenersi al nuovo lessico, ormai accettato in maniera quasi uniforme dalle principali Istituzioni.
Bisogna riferirsi innanzitutto alla classificazione internazionale detta ICDH (International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps, Classificazione Internazionale delle Menomazioni, Disabilità ed Handicap), stilata nel 1980 dall’OMS ed accolta anche dall'ISTAT, che distingue:
menomazione: perdita o anormalita' a carico di una struttura o una funzione psicologica, fisiologica o anatomica. E' il danno biologico che una persona riporta a seguito di una malattia (congenita o meno) o di un incidente;
disabilita': qualsiasi limitazione o perdita della capacita' di compiere un'attivita' nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano. Quindi si collega con l'incapacita' di svolgere le normali attivita' della vita quotidiana a seguito della menomazione;
handicap: condizione di svantaggio conseguente ad una menomazione o disabilita' che, in un certo soggetto, limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale medesimo soggetto in relazione all'eta', al sesso e ai fattori socio culturali: esso e' lo svantaggio sociale dell'avere una disabilita' e/o una menomazione.
Queste definizioni chiariscono come la condizione di handicap sia un fattore soggettivo, collegato alla disabilita' di una persona.
In seguito, l’OMS ha migliorato le definizioni abolendo i termini “disabilty” ed “handicap” nella classificazione ICDH-2 pervenendo, da ultimo e cioe' nel 2001, ad un modello, l'ICF, che identifica la disabilita' nel risultato di un'interazione tra stato di salute (possibile per tutti) e fattori ambientali specifici, svincolandola definitivamente dalla condizione categoriale di gruppo ristretto.
Considerando che i suddetti vocaboli sono tuttora presenti nella legislazione e nella normativa italiana, mentre le nuove dizioni sono utilizzate in fase sperimentale, e' comunque ancora corretto utilizzare i termini “disabilita'” ed “handicap”, ma preferibilmente secondo alcune linee comportamentali di seguito indicate:
Sono assolutamente da evitare le definizioni “handicappato”, “persona handicappata”, “portatore di handicap”, “lavoratore handicappato” ( o “handicappato lavoratore”). L’handicap e' infatti un fattore soggettivo ed esterno alla persona e non e' corretto, quindi, usare aggettivi o sostantivi che si riferiscano all'handicap come condizione intrinseca dell’individuo.
E' possibile utilizzare i termini “in condizione di handicap” o “in condizione di handicap grave”, ma solamente quando ci si riferisca ai commi 1 e 3 dell'articolo 3 della legge n.104 del 1992, da cui provengono tali espressioni.
Nelle comunicazioni interne ed esterne e' opportuno utilizzare sempre le formule: “persona con disabilita'”, “figlio (o minore) con disabilita'”, “lavoratore con disabilita'”.
Sono invece da evitare i termini “portatore di disabilita'”, “soggetto disabile”, “il disabile”, perche' definiscono la persona solamente in base alla sua condizione di disabilita' e non ne evidenziano le caratteristiche lavorative o per cui usufruiscono della tutela di norme di legge.
La dizione “diversamente abili”, pure molto utilizzata, non e' consigliabile, sia perche' mette l’accento su una presunta “diversita'” delle persone con disabilita', sia perche' troppo generica: si puo' essere “diversamente abili” da un'altra persona pur non avendo nessuna disabilita'.
Il termine invalido invece, afferente a varie norme di tutela amministrativa e previdenziale, rimanda al diritto di percepire un beneficio economico o assistenziale in seguito ad un danno biologico, che incida sulle capacita' di lavoro, indipendentemente dalla valutazione complessiva di autosufficienza.
Tutto cio' premesso, ci sentiamo di sintetizzare:
seguire le linee di “giusta comunicazione” consente una corretta definizione della situazione del cittadino utente nell'ambito della valutazione delle sue istanze, non confonde una condizione soggettiva con quella oggettiva ed evita che dizioni sia pure "gradevoli" costituiscano, di fatto, un fattore di generica diversita'.
Prendere spunto dallo studio di un Ente Istituzionale pubblico puo' abituarci ad espressioni oggettive e corrette ed aiutarci nel formare un atteggiamento di fattiva operativita' nei confronti di una persona menomata, a qualunque titolo, riconoscendone dignita' e qualita'.